Come psicoterapeuta, sto riscontrando un pensiero ossessivo molto diffuso: la paura di morire soli.
Si tratta di una proiezione mentale dolorosa, rivolta verso un futuro più o meno lontano, che toglie la pace a molte persone. Eppure la verità è che nessuno muore solo, ma tale verità, semplice e luminosa, resta invisibile ai più. Così si vive male e si muore peggio, con l’illusione di essere soli, con il risentimento e la tristezza di sentirsi abbandonati.
Faccio questo video per aiutare chi ascolta a liberarsi dal peso di questa inquietudine tormentosa.
Grazie a tutti coloro che iscrivendosi e mettendo un like, aiutano a sostenere questo progetto di psicoterapia spirituale.
Entriamo subito nel vivo del tema.
Come cerchiamo di sfuggire alla solitudine e all’angoscia
In molte sedute di psicoterapia ho rilevato una fantasia ricorrente, soprattutto in donne oltre i 50/60 anni ma a volte anche in giovani uomini e donne. È l’idea di essere colti da un improvviso malore mentre si è soli in casa senza la possibilità di può ricevere aiuto.
E di morire senza che nessuno se ne accorga per molto tempo.
Altre fantasie frequenti riguardano il fatto di dover affrontare in solitudine una malattia debilitante o anche semplicemente i disagi legati all’età. In effetti, la vita di molte persone è organizzata in modo più o meno ossessivo per lottare concretamente contro la paura di morire in solitudine.
Ci si iscrive a diverse chat di incontri, ma si capisce ben presto che in tali piattaforme le persone disponibili per una relazione stabile sono poche. Si cerca allora di compensare la qualità con la quantità e ci si ritrova a vivere una sorta di secondo lavoro, nel quale le persone che vengono contattate divengono quasi dei numeri, delle probabilità.
Accanto a ciò ci sono i viaggi di gruppo, le chat per single, gli speed date, le serate a tema, i gruppi che condividono passioni comuni e così via.
Non vedo nulla di male in simili attività.
Così come non c’è nulla di sbagliato in una conchiglia. Ma se proverai a svuotare il mare servendoti di una conchiglia, sprecherai solo il tuo tempo.
Il punto è che non è possibile risolvere un problema interiore con un’azione concreta.
Ad esempio, se tenterai di migliorare la tua autostima attraverso i successi, i successi non ti basteranno mai. Se tenterai di riempire un vuoto interiore con del cibo, tutto quello che porterai nel tuo stomaco non ti porterà mai la pienezza a cui anela il tuo cuore.
E così allo stesso modo se tenterai di combattere la solitudine cercando di stabilire una relazione, non farai che sentirti sempre più solo e deluso. Su questa via cadrai inevitabilmente in una dimensione tossica e manipolatoria.
Il feedback dell’altro diventerà per te una vera e propria dose, un cuoricino su whatsapp ti darà un momento di euforia ma subito dopo ti ritroverai di nuovo nel dubbio, nella paura e avrai bisogno di un’altra conferma, di un’altra dose.
Non sarà una relazione a salvarti dalla solitudine
In tal senso Gesù alla Samaritana incontrata nei pressi del pozzo, donna che non a caso aveva avuto cinque mariti, offre il suo insegnamento per uscire dalle dipendenze.
Le dice: “Finché berrai di quest’acqua avrai sempre sete, mentre se berrai l’acqua che ti darò io non avrai più sete in eterno. Perché l’acqua che ti darò io formerà dentro di te una fontana da cui zampilla acqua viva”
Gesù ci aiuta a cogliere il nodo del problema.
Niente di esteriore ci darà mai pace, anche se si tratta di una relazione d’amore. Tutto ciò che viene dall’esterno ci darà solo un breve sollievo ma ben presto ci farà sentire ancora vuoti, ancora assetati.
Per guarire davvero, dobbiamo trovare in noi stessi una fonte, dobbiamo cioè compiere un movimento interiore, un click interiore.
Cerchiamo adesso di andare insieme in profondità un passo alla volta per trovare la fonte di acqua viva di cui abbiamo bisogno.
“Perché mi sento solo anche in coppia o con gli amici?” Da dove nasce il senso di solitudine che ci portiamo dentro
Innanzitutto dobbiamo comprendere che l’angoscia di solitudine e l’angoscia di morte sono strettamente connesse tra di loro e anzi nel profondo sono una stessa cosa.
La pratica clinica mostra che chi è afflitto dalla paura della solitudine e della morte ha spesso un’infanzia segnata da una carenza d’amore da parte dei genitori.
Quando i genitori non sono in grado di far sentire il figlio come parte di qualcosa di più grande si genera in lui la falsa convinzione di essere separato dal resto del mondo.
È questa la matrice fondamentale dell’Ego.
L’Ego, infatti, si genera dall’illusione dell’individuo di essere separato dall’universo, dal mondo, dalla natura e dal prossimo.
L’essere umano che concepisca sé stesso come una monade isolata si sentirà irrimediabilmente solo, costantemente in pericolo e vivrà immerso nella paura della morte.
Agli occhi dell’Ego non c’è nulla di più reale della solitudine e della morte.
Per questo Heidegger giunge alla desolante conclusione secondo la quale la morte è la possibilità più propria, incondizionata e insuperabile dell’Esserci. La frase del filosofo esistenzialista viene pronunciata dalla prospettiva di chi crede di essere soltanto un Io.
Al contrario, per l’iniziato che si dis-identifichi dal proprio piccolo io dissolvendolo nella connessione con il tutto, la morte non esiste e c’è solo vita.
Questo intendeva Gesù quando diceva: “Chi vorrà salvare sé stesso si perderà, mentre chi sacrificherà sé stesso in nome mio, si salverà”
La morte ci porta via il nostro io, ma la nostra Essenza non risiede nell’Io bensì nell’essere profondo posto dietro alle forme passeggere. Come insegna il grande Ekhart Tolle è morire nell’Io finché si è in vita per scoprire che non c’è morte.
La salvezza consiste nel dissolvere il nostro Falso Sé attraverso la connessione amorevole col tutto. Gesù esprimeva questa veità affermando “Ama il prossimo tuo come te stesso e avrai la salvezza”
In effetti, il motivo per cui siamo oppressi dall’ombra della morte non riguarda tanto il fatto di non essere amati, ma dal fatto che non riusciamo veramente ad amare. In molti purtroppo fanno ancora fatica a sentirsi connessi.
Hellen Shackman afferma giustamente che ogni sofferenza umana trae origine dalla falsa convinzione di essere separati.
Ma occorre vedere che tale falsa convinzione nasce nel momento in cui il bambino non si sente abbastanza accolto e amato dai genitori.
Occorre anche aggiungere che nessun genitore è veramente in grado di svolgere il proprio compito in modo perfetto. Per cui in ognuno di noi esistono un senso di separazione e di angoscia di morte più o meno profondi.
Ma se i limiti del genitore creano inevitabilmente questa ferita, siamo noi a doverla curare.
Ci sentiamo soli perché non avvertiamo il senso di unione e connessione con il Tutto
L’obiettivo fondamentale della psicoterapia è proprio quello di aiutare la persona e la comunità a prendersi cura di questa ferita originaria e convertire con la separazione in connessione, la paura in amore.
Per chi ha seguito il video fino a questo punto, dovrebbe ormai apparire chiaro che la solitudine non riguarda tanto il fatto di avere o meno una qualche relazione speciale, ma la possibilità – che ci riguarda nel profondo – di sentirci connessi o al contrario separati dal resto del mondo.
Come è noto, infatti, possiamo sentirci tremendamente soli a che quando siamo fidanzati e circondati da amici.
Così come al contrario possiamo sentire un senso di serenità e di connessione anche passeggiando in un bosco o su una spiaggia solitaria.
Portiamo ora questi insegnamenti su un piano concreto.
Facciamo degli esempi per capire ciò che stiamo dicendo. Proviamo a immaginare una donna profondamente identificata con il proprio Ego e quindi interiormente separata. Ha trovato un compagno, con l’intento inconscio di placare la sua angoscia di solitudine e di morte.
Ma attenzione.
Secondo le leggi psichiche di cui abbiamo parlato, ciò che questa donna sperimenterà è che quel compagno non può realmente dissolvere il suo senso di solitudine e morte.
Tuttavia lei non dirà a sé stessa “Questo uomo non può salvarmi perché la mia guarigione dipende dall’elaborazione delle ferite del MIO passato e da un percorso spirituale di consapevolezza”
No.
Invece finirà per incolpare lui. Lo accuserà di non essere abbastanza, cercherà di manipolarlo con il senso di colpa, facendolo sentire magari come i suoi genitori hanno fatto sentire lei da bambina. Cercherà così facendo di ottenere da lui tutta l’attenzione possibile.
E quando si renderà conto che nemmeno questo le porta pace, concluderà di aver scelto la persona sbagliata.
E si rimetterà in cerca di una nuova relazione, preparando la strada per un nuovo fallimento.
Al contrario, una persona spiritualmente evoluta, anche se fisicamente sola, in un letto d’ospedale, malata e prossimo alla morte, non si sentirà mai davvero sola né sarà tormentata dal terrore di morire.
La sua pace nasce da una dimensione interiore profonda e immutabile.
Il suo non sentirsi sola non deriva dalla presenza di qualcuno al suo capezzale o da gesti esterni di conforto o sacrificio. La sua serenità non dipende da ciò che è fuori di lei ma da un senso di appartenenza all’eterno.
Ella sa di non essere una fragile onda di passaggio, ma l’oceano stesso indistruttibile.
Non teme la morte perché che tutto ciò che in lei poteva morire– e mi riferisco con ciò all’Ego – è già caduto.
In lei restano solo connessione, amore e vita.
Come dovremmo vivere le relazioni, varchi spirituali
Con questo non voglio dire che le relazioni umane non siano importanti, anzi. La relazione profonda resta il varco fondamentale attraverso il quale stabilire una connessione con l’Uno. Ma non si deve confondere il mezzo con il fine. La strada per andare al cinema, non è il cinema. Se vuoi entrare al cinema a un certo punto dovrai lasciare la strada.
Come puoi capire, in questa metafora la strada è la relazione speciale, mentre la trasformazione interiore che ti permette di sentirsi sempre e comunque connesso col mondo è il cinema.
Puoi vedere dunque che se la strada diventa più importante del cinema, rimarrai sempre insoddisfatto.
Abbiamo detto che le prime persone che dovrebbero aiutarci a connetterci con noi stessi e con il mondo sono i nostri genitori.
Persino Buddha e Gesù per diventare maestri cosmici hanno avuto bisogno di genitori abbastanza evoluti. Ma se per qualche motivo il genitore risulta troppo malato per costituire un varco adeguato per la connessione, la vita può offrici comunque altre possibilità.
Un’amicizia, un amore romantico, un maestro, un terapeuta, un animale domestico.
Questi incontri possono davvero salvarci, possono farci sperimentare la verità della connessione. Ma dobbiamo ricordarci che vanno visti come un mezzo esterno per raggiungere qualcosa di interiore.
Se la connessione con qualcuno non mi fa fare un passo verso la connessione con l’universo, non mi avrà veramente aiutato a essere più felice.
Questo concetto viene espresso nel canto iniziale del Vangelo di Giovanni.
“Non era lui la luce, ma doveva dare testimonianza alla Luce”
Il fine quindi non è avere un amico o un partner. Il vero obiettivo è sentirsi connessi, è fare quel click interiore che cambia il nostro modo di concepire la nostra relazione con il mondo.
È importante capire che gli incontri sono varchi.
Essi si aprono e ci permettono di accedere a una verità più profonda e poi si richiudono.
Occorre anche comprendere che i varchi spirituali sono fisiologicamente instabili.
Sono instabili perché in quanto ponti tra il contingente e l’eterno non manifestato, affondano metà del loro corpo nella sfera concreta, soggetta al perpetuo fluire. Pertanto dobbiamo accettare serenamente che qualsiai relazione o varco non rimarrà mai aperto per sempre.
Anzi è del tutto normale che prima di dissolversi completamente si chiuda e si riapra come un respiro, diverse volte. Non dovremmo offenderci per questo ma anzi essere grati per l’opportunità che ci viene offerta. Dovremmo solo cercare di non sprecare tali opportunità.
Non parlo dell’Amore Santo.
Le relazioni cambiano ma noi rimaniamo intimamente connessi con tutto e tutti
Ma ogni amore romantico è destinato a cambiare, ad avere alti e bassi e infine a dissolversi.
Un’amicizia può perdersi nel calderone alchemico della vita. Ci sta e va bene così.
Ma se queste relazioni sono servite a farci sperimentare la connessione, allora hanno compiuto il loro scopo. Il punto è che quando il varco si chiude, la connessione dovrebbe rimanere dentro di noi.
Così come quando ha finito le elementari, un bambino dovrebbe in teoria aver interiorizzato le tabelline. In psicoanalisi sappiamo che gli incontri che facciamo non sono un qualcosa che possiamo avere, ma piuttosto entrano a far parte di ciò che siamo.
Nello specifico si dice che ognuno di noi è il modo in cui ha dato forma agli incontri che lo hanno formato.
Ma se confondiamo il mezzo con il fine e crediamo che essere connessi significhi controllare una data persona, non troveremo mai pace.
Così facendo saremo sempre in balia della paura di perderla perché come insegna Fromm saremo scaduti dall’Essere all’Avere.
Ricordiamolo ancora, nessuno di noi, neanche nella situazione più assurda e difficile, sarò veramente solo.
Tutti noi siamo connessi con ogni cosa.
Siamo connessi con le foglie, con il vento, con un sasso, col mare, con i fratelli animali, con le piante, con ogni persona. Anche in questo momento, se puoi vederlo, non c’è un te che ascolta un me.
Ma se c’è solo l’essere profondo che sta dialogando con sé stesso per evolvere la sua incarnazione su questo pianeta, nel mutevole manifestarsi delle forme.