Mi sento trasparente

Non mi ascolta mai nessuno

Devo sempre fare qualcosa per essere considerato”.

Sono frasi che ascolto spesso nella stanza di terapia.
Parole semplici, ma che rivelano un vissuto profondo e doloroso: quello di non esistere davvero per l’altro, di essere invisibile.

Molti pazienti descrivono questa sensazione come una presenza a metà.

Sono lì, vivono, lavorano, parlano… ma si sentono ignorati, dati per scontati da coloro che li circondano, che si tratti di amici, colleghi, familiari o del proprio partner.

Questa sensazione di invisibilità, che si manifesta nelle relazioni quotidiane, sul posto di lavoro così come nell’intimità della propria casa, non nasce nel presente.

È qualcosa che affonda le sue radici in un tempo molto più antico, nella trascuratezza vissuta nell’infanzia.

Nello sguardo che ci è mancato quando più ne avevamo bisogno.

Il bisogno di essere visti: come nasce (e si perde) il senso di sé

Studi e osservazioni che hanno portato all’elaborazione delle teorie dell’attaccamento hanno evidenziato come, a partire dalla primissima infanzia, costruiamo l’immagine di noi stessi attraverso la relazione con l’altro significativo.

È nel suo sguardo, amorevole o distante, che ci vediamo per la prima volta.

Scrive Donald Winnicott:

Che cosa vede il lattante quando guarda il viso della madre? Secondo me […] vede sé stesso. In altre parole, la madre guarda il bambino e ciò che essa appare è in rapporto con ciò che essa scorge.”

Vedendoci riflessi nello specchio che l’altro rappresenta per noi iniziamo a intuire chi siamo e soprattutto quanto valiamo.

È quello sguardo a farci capire – anche se in modo non cosciente – se meritiamo amore.

Diciamo se perché l’amore, per quanto rappresenti un diritto del bambino piccolo che non è in grado di sopravvivere senza l’altro, purtroppo non sempre è qualcosa di scontato.

Lo sguardo presente che costruisce un solido Senso di Sé

Quando quello sguardo è sintonizzato, amorevole, capace di accogliere, il bambino può riconoscere sé stesso come degno di considerazione, amore e cure.

In questo primo contatto, prende forma un’intuizione che potremmo esprimere nella semplice ma potente frase: “Io ho valore”

Un bambino che riceve questo tipo di sguardo interiorizza la sensazione fondamentale di valere a prescindere.

È amato così com’è.

Quest’esperienza primaria si pone alla base della costruzione del Sè dell’individuo.

È un solido pilastro su cui può poggiare la fiducia in sé stesso, negli altri e nel mondo, come luogo che può essere esplorato senza timore. O meglio, con la consapevolezza che, se ce ne sarà bisogno, ci sarà una base sicura a cui tornare.

Sarà quindi in grado di tollerare le distanze, i silenzi, le inevitabili delusioni che fanno parte del gioco dell’esistenza, senza che esse mettano in discussione il suo valore.

Perché quel valore è saldo dentro di lui. Non dipende da ciò che c’è fuori.

Non vacilla se l’altro si allontana, se non approva, se non risponde subito.

Saprà di esistere (e valere) anche quando non è al centro dello sguardo altrui.

Lo sguardo vuoto o svalutante che ci fa vacillare

Ma cosa accade, invece, quando lo sguardo che ci viene rivolto durante l’infanzia è uno specchio vuoto?

O quando ci rimanda un riflesso distorto, svalutante?

Se invece che amore e cure, si riceve trascuratezza, indifferenza o abbandono, accade che il bambino non si ritrova. Quello che sente nel profondo non trova accoglienza e riconoscimento da parte dell’adulto significativo.

Immaginiamo un bambino molto piccolo, poco più che neonato. È agitato, piange senza sosta perché è l’unico modo che ha di manifestare all’esterno un disagio.

Ha fame? È stanco? Ha solo bisogno di contatto e conforto?

Immaginiamo ora la madre. Magari è trascorso poco tempo dal parto e non è ancora riuscita a recuperare le energie fisiche e mentale.

Forse è spaventata, disorientata dal cambiamento. Forse non riceve un aiuto adeguato in casa, si sente sola, carica di aspettative irrealistiche, bombardata da consigli contraddittori.

Tiene il bambino in braccio, ma è come se fosse lontana.
Il corpo c’è, ma la presenza emotiva fatica ad arrivare.
Lo guarda, ma con uno sguardo stanco, a volte assente, a volte carico di ansia, preoccupata più dal “calmarlo” che dal comprenderlo. Forse vorrebbe sentire un legame, ma non lo sente.

E questo la fa sentire ancora più in colpa.

Magari gli parla, ma con tono nervoso.

Il neonato, dal canto suo, non comprende le cause, ma percepisce l’assenza di sintonizzazione. E quello che inizia a costruirsi dentro di lui non è ancora una convinzione cosciente, ma un’impressione corporea, profonda, precoce:

“Quando ho bisogno, l’altro non c’è davvero.”

In quel momento, non è la mancanza di una risposta a creare il vuoto, ma l’assenza di uno sguardo che risuoni.

È così che, in modo del tutto implicito, può cominciare a formarsi una rappresentazione di sé come ‘troppo’ o ‘sbagliato’, o la convinzione che per essere amato si debba sparire, non chiedere, non pesare.

Facciamo un altro esempio.

Immaginiamo un bambino che, tornando da scuola, va in lacrime dal papà perché è stato preso in giro da un suo compagno di classe. Sente il bisogno di un abbraccio che lo accolga e di qualche parola di conforto, perché.

Ma il padre, magari infastidito o semplicemente troppo impegnato per dargli ascolto, minimizza l’accaduto, liquidandolo con:

E dai, non è niente. Smettila di piangere per queste sciocchezze. Devi imparare a farti rispettare, non a frignare.”

In quel momento, non è solo il pianto a essere respinto, ma tutto ciò che il bambino sta vivendo: la vergogna, la tristezza, il bisogno di essere rassicurato.

Ciò che riceve in cambio della sua richiesta di attenzione e aiuto non è accoglienza, ma rifiuto emotivo. E il messaggio implicito che risuona dentro di lui è:

“Quello che senti non conta.”

Queste situazioni, in apparenza banali o quotidiane, possono avere un impatto significativo e duraturo sullo sviluppo del senso di sé.

Perché non è tanto la gravità del singolo episodio a ferire, quanto la sua ripetizione.

L’insegnamento che si trae da simili vissuti è che tutto ciò che ci riguarda non ha alcuna importanza agli occhi dell’altro. Le nostre emozioni, i bisogni, i sogni, i desideri…

tutto ciò che abbiamo di più intimo non merita attenzione.

Dall’invisibilità infantile alle difficoltà relazionali della vita adulta

Chi da bambino non si è sentito visto dai genitori, in età adulta si trova ad affrontare un senso di profonda solitudine legato a quel vissuto di irrilevanza.

È da qui che nasce la sindrome di invisibilità di cui parlavamo all’inizio.

Quel mancato riconoscimento, infatti, viene interiorizzato dall’individuo che cresce guardandosi con lo stesso sguardo vuoto che ha ricevuto da piccolo.

Uno sguardo che lo fa sentire del tutto insignificante.

Chi ha vissuto questo tipo di ferita può passare la vita a cercare riconoscimento da parte degli altri, nei diversi ambiti della vita, senza mai sentirsi davvero preso in considerazione.

Per colmare quel vuoto, mette in atto strategie di sopravvivenza relazionale, spesso del tutto inconsapevoli.

C’è chi cerca di guadagnarsi l’amore altrui dimostrandosi sempre disponibile e accomodante, poiché ha imparato presto che, per essere considerato, doveva cercare di soddisfare le aspettative degli altri, anche al costo di deludere costantemente le proprie.
E così ha cominciato a modellarsi sul desiderio dell’altro, rendendo la compiacenza una forma di esistenza.

Ti do tutto ciò che vuoi, purché tu non mi lasci. Purché tu mi veda.”

Ma anche quando riceve approvazione o affetto, non gli basta mai.

Qualcosa dentro continua a non sentirsi pienamente riconosciuto, perché lo sguardo che riceve non incontra chi è davvero, ma solo la maschera che ha imparato a indossare.

Per mio marito sono trasparente”. Un esempio di invisibilità nella coppia

Pensiamo al caso di una donna che, da piccola, si è sentita messa da parte dai genitori, troppo presi dal loro matrimonio in crisi. La quiete domestica era costantemente interrotta da litigi furiosi.

E anche quando tutto sembrava tranquillo, si percepiva la tensione nell’aria.

Come se ci fosse sempre una bomba pronta a esplodere.

Per sopravvivere in quell’ambiente, la bambina ha dovuto imparare a non chiedere, a non esprimere troppo. Ha intuito – prima ancora di poterlo capire pienamente – che ogni sua emozione “di troppo” rischiava di scatenare un conflitto.

Così si è adattata alla situazione. E per muoversi su quel terreno incerto con passi leggeri, ha appreso a leggere l’umore degli altri prima ancora di ascoltare il proprio.

Se la mamma era triste, cercava di consolarla. Se il papà era arrabbiato, cercava di non farsi notare.

Questo le ha permesso di mantenere un equilibrio in un ambiente emotivamente instabile, dove non aveva certezze.

Ma quanto vissuto e appreso durante l’infanzia è divenuto uno schema. Una modalità di stare al mondo che continua ad agire anche nell’oggi, nella vita presente della donna ormai adulta.

In che modo?

Nella relazione di coppia è una compagna presente, sempre disponibile. Anticipa i bisogni del partner con grande premura, si sacrifica, cercando di renderlo felice.

Ma anche se lui la contraccambia di un affetto sincero, lei continua a sentirsi sola.

Per quanto possa ricevere attenzioni e premure, non è mai sufficiente.

Questo perché sta domandando all’altro l’impossibile: colmare quel vuoto originario con il suo amore.

Ma non è compito dell’altro sanare le ferite emotive dell’infanzia.

Lei, però, non ne ha consapevolezza.

E così, senza accorgersene, comincia a prendersela con il partner.

Basta una dimenticanza, una risposta distratta, un gesto che sembra segnalare disinteresse per scatenare in lei una risposta delusa o rabbiosa:

Non mi ascolti mai.”
Non ti accorgi di me.”
Mi fai sentire sola.”

In quei momenti, non è la donna adulta a parlare, ma la bambina trascurata, che ha imparato a misurare il proprio valore in base alle briciole di attenzione che riceveva quando si comportava “bene”.

Mi sento invisibile a lavoro”

Non è raro che il senso di invisibilità emerga con forza anche sul posto di lavoro, dove spesso riviviamo dinamiche tipiche dell’ambiente domestico e familiare.

Faccio di tutto, ma nessuno se ne accorge.”
Vengo sempre interpellato per ultimo, anche se ho più competenze dei mie colleghi

Sono frasi che sentiamo pronunciare spesso, fuori e dentro la stanza di terapia.

Chi ha interiorizzato fin dall’infanzia il messaggio di non essere degno di attenzione o valore, può rivivere quella stessa dinamica nei contesti professionali in cui andrà a inserirsi nel corso della propria vita adulta.

Anche quando è competente o responsabile, anche se ha fatto corsi di formazione, lauree, master tirocini… continua a sentirsi trasparente.

A volte si sforza per ottenere approvazione, mettendo il proprio benessere al secondo posto. Magari rimane fino a tardi in ufficio per completare una presentazione.

Oppure prende su di sé più carichi del dovuto, anche se sarebbe compito dei colleghi.

Dice sempre sì, anche se è stanco e frustrato.
Ma anche quando riceve un complimento o un riconoscimento formale da parte del proprio superiore, non riesce a sentirsi davvero soddisfatto.

Spesso, dietro la frase “mi sento invisibile a lavoro”, c’è una ferita antica che ricomincia a sanguinare ogni volta che il proprio impegno non viene riconosciuto o valorizzato come ci si aspetta.

Finché non si riconosce la radice emotiva profonda di questo dolore, si rischia di inseguire all’infinito qualcosa che possiamo trovare soltanto rovesciando la prospettiva.

Dobbiamo smettere di guardare fuori, di aspettare riconoscimenti esterni, complimenti, voti, like sui social…

perché non è quello a farci sentire davvero validi.

Lo sguardo che cura: la relazione terapeutica per guarire la ferita dell’invisibilità

Quando il senso di invisibilità si è radicato nel tempo, non basta comprendere le radici del proprio disagio per uscirne.

Portare a consapevolezza questa dinamica è soltanto il primo passo di un percorso che deve toccare corde più profonde.
La ferita di cui stiamo parlando non è solo cognitiva.

È relazionale, profonda, incisa nella memoria emotiva.
Per questo motivo, il percorso terapeutico non è semplicemente un luogo dove “capire”, ma uno spazio dove vivere l’esperienza di essere finalmente visti e riconosciuti.

Nella relazione terapeutica, infatti, il paziente può fare un’esperienza nuova e riparativa: quella di esistere nello sguardo dell’altro senza doversi guadagnare nulla, senza doversi adattare, senza dover performare.

Il terapeuta non chiede prestazioni, non misura, non dà giudizi.
Offre invece uno sguardo presente, umano, attento.

E proprio questo sguardo — che ascolta le parole ma anche i silenzi, che accoglie la vergogna e la rabbia, che resta anche quando il paziente vorrebbe sparire — inizia a generare qualcosa di nuovo.

In questa nuova relazione, può nascere una forma diversa di riconoscimento: non più cercato ossessivamente fuori, ma sentito dentro.

Share on FacebookTweet about this on TwitterEmail this to someoneShare on LinkedInPin on Pinterest