Scegliere di diventare psicoterapeuta, aiutando gli altri nel proprio percorso di crescita personale, guidandoli verso il ritrovamento del benessere, comporta grandi sfide e dei veri e propri rischi.

È necessario conoscere questi pericoli psichici per poter esercitare la professione in modo consapevole, evitando di cadere in alcune trappole che possono compromettere la vita personale e relazionale del terapeuta stesso.

Il rischio di esaurire le proprie risorse emotive

Nel corso della propria giornata lavorativa, il terapeuta si trova in contatto costante con la sofferenza.

La gran parte dei pazienti che arrivano in seduta, infatti, lo fanno perché sentono che qualcosa non va nella loro vita. Hanno cominciato a manifestare i sintomi di un malessere latente e vogliono cercare di risolvere il disagio che provano: stati d’ansia, attacchi di panico, insonnia, problemi sessuali o relazionali etc.

Il terapeuta ha il compito di disporsi in modo empatico per accogliere le loro emozioni, esercitando un ascolto profondo e non giudicante.

Ciò significa investire un’enorme mole di risorse emotive.

Queste energie non sono infinite e, in alcune situazioni di particolare sovraccarico, potrebbero esaurirsi del tutto. Alla fine di una giornata satura di appuntamenti con pazienti diversi, preso all’interno di relazioni intense che comportano uno scambio continuo e che richiedono la sua totale attenzione, il terapeuta potrebbe sentirsi completamente svuotato, privo di energie.

Rientrato a casa, potrebbe sentire il bisogno di ricercare un po’ di solitudine, per riposarsi, riprendersi e ricaricasi. Ma questo non sempre è possibile, soprattutto se ha una famiglia, un partner o dei figli che lo aspettano per trascorrere finalmente del tempo insieme.

Il rischio è quello di non esserci per loro, di essere poco disponibile, finendo quindi col logorare e compromettere i rapporti all’interno della famiglia.

Il rischio di lasciarsi risucchiare dal lavoro

Il terapeuta trascorre la sua giornata immerso in conversazioni intense, molto coinvolgenti dal punto di vista emotivo e intellettuale, dedicate ad argomenti profondi.

Alla lunga, questo potrebbe indurlo a ritenere troppo banali e superficiali tutte le altre conversazioni, gli scambi che ha quotidianamente con gli amici, con il compagno o la compagna, con i figli. Ciò potrebbe determinare un’insoddisfazione profonda rispetto alla propria vita di relazione, così povera di stimoli, tanto da preferirle il lavoro nella stanza di terapia.

Il pericolo, allora, è quello di lasciarsi risucchiare dal lavoro con i pazienti, finendo con il trascurare i propri rapporti personali, perdendo la rete umana che lo circonda e lo sostiene.

Irvin Yalom descrive bene questa situazione all’interno del suo splendido libro “Il dono della terapia” nel passaggio in cui scrive:

“Troppo spesso noi terapeuti trascuriamo i nostri rapporti personali. Il nostro lavoro diviene la nostra vita. […] La concezione del mondo del terapeuta è di per sé isolante. Quelli con maggiore anzianità di lavoro vedono i rapporti in modo differente, qualche volta perdono la pazienza verso i rituali sociali e la burocrazia, non riescono a sopportare rapporti fugaci e poco profondi e il chiacchiericcio di molte riunioni sociali”.

Il pericolo di identificarsi con il proprio ruolo di terapeuta

Quello del terapeuta non è soltanto un mestiere, ma un modo di essere.

Quando si comincia a esercitare, non ci si limita semplicemente ad applicare metodi e tecniche apprese durante gli anni di specializzazione alla scuola di psicoterapia.

Intraprendere la professione di psicoterapeuta significa iniziare un percorso di crescita personale, porsi sulla via del cambiamento per acquisire una maggiore consapevolezza ed evolvere.

Proprio questa consapevolezza profonda dovrebbe metterci al riparo da un pericolo insito nella professione: quello di identificarsi con il proprio ruolo.

Tuttavia, quando rientriamo a casa la sera, dopo una lunga giornata di lavoro, non sempre riusciamo a dismettere i panni dello psicoterapeuta. Spesso, senza nemmeno rendercene conto, finiamo col portare al di fuori del setting della stanza di terapia un certo approccio, un certo modo di entrare in relazione con gli altri e di analizzare la realtà e quel che accade.

Tutto questo ha un’influenza molto negativa sulle nostre relazioni.

Amici e parenti, infatti, potrebbero non gradire affatto che il terapeuta usi con loro le proprie competenze professionali, analizzando e interpretando dinamiche e processi in atto.

Purtroppo, non esiste un interruttore per spegnerci. Non è possibile passare automaticamente da “terapeuta” a “marito”, “padre” o “amico”.

Per evitare tutto questo, è necessario lavorare su sé stessi, rimanere vigili e tenere sempre a mente cosa potrebbe accadere se…

Controtransfer: istruzioni per l’uso

Come abbiamo affermato all’inizio di questo articolo, nella pratica clinica quotidiana, il terapeuta si confronta costantemente con il dolore, l’angoscia, il disagio mentale, la solitudine.

In poche parole, sta a contatto diretto con la sofferenza umana.

Naturalmente, questo accade anche ad altri professionisti della salute, come i medici o gli operatori sanitari che lavorano in ospedale, mettendosi al servizio dei malati.

Esiste una differenza sostanziale però.

I medici, infatti, possono alzare una barriera tra sé e il dolore dell’altro, concentrando la propria attenzione sugli aspetti organici del problema, sul lato concreto della questione.

Gli psicoterapeuti, invece, deve guardare in faccia quella sofferenza.

Qui entra in gioco quel particolare processo noto come controtransfert, che definisce l’insieme delle emozioni e dei vissuti suscitati nel terapeuta dall’esperienza che vive in connessione con il paziente.

In alcuni casi, infatti, quel che viene raccontato ed esplorato durante il percorso può far risuonare qualche corda nel profondo dell’animo del terapeuta, può innescare ricordi, rievocare vissuti rimasti a lungo sepolti nella coscienza e mai affrontati.

Come ci insegnano le tante discussioni sull’argomento, il controtransfert è un’arma a doppio taglio, qualcosa che può ferire e, allo stesso tempo, può diventare una straordinaria risorsa.

Se gestito male, il controtransfert può provocare seri danni, inficiando il percorso e portando il terapeuta sull’orlo della crisi personale.

Se gestito bene, invece, il controtransfert diventa un’occasione per comprendersi più a fondo e trovare il modo per vivere in modo più pieno e autentico.

Confrontarsi con il dolore degli altri ci permette di prenderci cura anche delle nostre stesse fragilità.

Perché i punti in cui sentiamo bruciare forte sono quelli in cui siamo già stati feriti.

È di vitale importanza, allora, che lungo il percorso, il terapeuta si prenda cura anche di sé stesso, oltre che del paziente che si è rivolto a lui.

Per farlo, può avvalersi dell’aiuto e del supporto di un collega più anziano o più esperto che gli faccia da supervisore, con cui confrontarsi e discutere degli elementi che emergono lungo il percorso.

Oltre alla supervisione individuale, risulta molto utile ed efficace anche l’intervisione di gruppo, all’interno della quale diversi terapeuti possono elaborare insieme le angosce, le difficoltà e le inquietudini che emergono nel corso delle sedute con i propri pazienti.

Presso il centro di psicologia e psicoterapia Il Filo di Arianna è attivo da molti anni un gruppo di intervisione, cui partecipano solitamente 7 o 8 terapeuti, condotto dal dottor Simone Ordine. Questo tipo di lavoro consente anche di incrementare le capacità terapeutiche dei vari partecipanti, non solo perché vengono elaborati insieme i controtransfert ma anche perché è possibile affrontare determinati elementi difficili anche attraverso la chiave di lettura fornita dai diversi approcci dei terapeuti partecipanti.

 

Immagine di copertina: Immagine di Freepik

 

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