Non mi sento mai abbastanza.”
“Anche quando gli altri mi apprezzano, dentro sento di non valere.”

Spesso, nella stanza di terapia, si sentono questo genere di frasi. A pronunciarle sono persone di ogni tipo, uomini e donne che convivono con un profondo senso di inadeguatezza.

Dentro di loro sentono risuonare una voce severa che giudica, sminuisce, blocca e impedisce loro di godere dei risultati raggiunti e di sentirsi soddisfatti di sé.

La tendenza all’autosvalutazione si manifesta in ogni ambito della vita, da quello lavorativo, alle relazioni affettive, persino nel modo in cui ci si prende (o meno) cura di sé.

È un dolore invisibile, difficile da spiegare, ma profondamente reale.

In psicoterapia, capita spesso di incontrare adulti che portano con sé questo senso cronico di non essere all’altezza, senza sapere da dove nasca davvero. In molti casi, dietro questo sentirsi sbagliati ci sono esperienze precoci e ripetute di mancato riconoscimento da parte delle proprie figure di riferimento: affetto condizionato, messaggi impliciti che comunicavano “non vai bene così come sei”.

Non si tratta necessariamente di traumi eclatanti, ma di micro-ferite relazionali che, nel tempo, si sono sedimentate nella psiche sotto forma di un giudice interiore severo e svalutante.

L’origine invisibile dell’autosvalutazione: attaccamento e valore personale

Come evidenziato da John Bowlby, ideatore della teoria dell’attaccamento, è proprio nelle prime relazioni significative con le figure di accudimento che iniziamo a costruire l’immagine che abbiamo di noi stessi.

La nostra identità, il modo in cui percepiamo noi stessi e il mondo, dipende in larga misura dalle esperienze vissute durante l’infanzia.

Il modo in cui veniamo guardati, accolti, contenuti nei nostri bisogni e nelle nostre emozioni non plasma solo la qualità del legame con gli altri, ma anche — e forse soprattutto — il nostro senso di valore personale.

Pensiamo al caso di un bambino che piange perché è spaventato oppure ha bisogno di essere rassicurato. Se l’adulto che si prende cura di lui – il caregiver – riesce a riconoscere l’emozione, a contenerla con empatia e a rispondere in modo coerente al bisogno del piccolo, restituendogli un senso di sicurezza, il bambino si sentirà accolto nel suo vissuto.

Quest’esperienza, ripetuta più volte, gli permetterà di costruire dentro di sé l’idea di essere degno di amore, cura, rispetto, attenzione.

Imparerà che le emozioni possono essere espresse e che, nel momento del bisogno, c’è qualcuno pronto ad aiutarlo.

Su questo terreno solido si getta il seme dell’attaccamento sicuro, che può far germogliare la fiducia in sé stessi e negli altri.

Ma cosa accade, invece, se la risposta che arriva dall’adulto è assente, incoerente, svalutante o intrusiva? Che cosa impara un bambino quando, nel momento in cui piange, viene umiliato, ignorato o addirittura punito da chi dovrebbe consolarlo?

Il messaggio che riceve non riguarda solo la situazione presente.

Non si tratta di un semplice “Non ti aiuto”.

Quel gesto, quella mancanza, si trasformano in una convinzione profonda: “Non vado bene così come sono”.

Il bambino, per natura, non può pensare che sia il genitore ad aver sbagliato. Per proteggere il legame — da cui dipende la sua stessa sopravvivenza — è costretto a mettere in discussione se stesso e a incolparsi se non riceve il supporto di cui avrebbe bisogno.

Così, invece di sentire: “sono arrabbiato perché il mio bisogno non è stato accolto”, il bambino interiorizzerà un’immagine di sé al negativo: “sono io a essere sbagliato perché ho questo bisogno”.

È da questo tipo di esperienze che nasce una ferita profonda ma invisibile, quella di non sentirsi degni d’amore per come si è.

Nel tempo, questa matrice si struttura in modelli interni di funzionamento che continueranno ad agire anche nell’età adulta, influenzando la percezione di sé e il modo di vivere le relazioni. È così che nasce, spesso senza che ce ne accorgiamo, quella voce interna svalutante, che ci accompagna come un’eco antica, e che può diventare fonte di sofferenza profonda.

Le maschere dell’inadeguatezza in età adulta

Come abbiamo visto, il senso di inadeguatezza e inferiorità – quel costante sentirsi “non all’altezza” o “mai abbastanza” – ha radici nella nostra infanzia e riflessi importanti nella vita quotidiana adulta.

Spesso, però, non si presenta in modo diretto, ma si nasconde dietro comportamenti appresi che hanno avuto, nel tempo, una funzione di protezione.

Potremmo dire che si tratta di vere e proprie maschere che indossiamo, inconsapevolmente, nel tentativo di sopravvivere in un ambiente che percepiamo come ostile, insicuro.

Uno dei comportamenti più frequenti in chi percepisce sé stesso come carente o mancante è il perfezionismo. In effetti, se cresci con l’idea che per ricevere amore sia necessario soddisfare aspettative elevate, non sbagliare mai, mostrarti sempre capace e autonomo, impari presto a misurare il tuo valore in base alla performance.

In quest’ottica, l’errore o il fallimento non sono visti semplicemente come eventi spiacevoli o magari occasioni di apprendimento, ma diventano vere e proprie minacce alla propria identità.

Sbagliare equivale a non valere.

Di conseguenza, la persona perfezionista vive in uno stato costante di tensione, sempre protesa verso un traguardo irraggiungibile.

La voce interiore, infatti, continua a ripetere: “Puoi fare di più. Non sei ancora abbastanza.”

Ogni risultato raggiunto, però, non sarà mai sufficiente.

Il problema fondamentale è che si cerca di colmare un vuoto interiore con un’azione concreta. Si lavora di più, si fa meglio, si raggiungono obiettivi sempre più alti…

ma il senso di inadeguatezza non si placa, perché non riguarda ciò che si fa, bensì ciò che si crede di essere, ciò che si sente dentro di sé.

Il bisogno di sentirsi visti e riconosciuti non potrà in alcun modo essere soddisfatto in questo modo.

È un tentativo di “guarigione” che non guarisce, al contrario, rischia di rinforzare l’idea che solo se si è impeccabili si può essere amati.

Un altro comportamento tipico di chi soffre di un profondo senso di inadeguatezza è la tendenza a cercare di compiacere l’altro in ogni modo, mettendo sempre da parte sé stesso, fino a sparire completamente dalla relazione.

A guidare questo questo comportamento non è la generosità, ma la paura: paura di deludere l’altro e quindi di venire abbandonato.

Chi sente di non valere abbastanza, infatti, sviluppa l’idea che per mantenere un legame affettivo sia necessario adattarsi completamente all’altro, diventare ciò che l’altro si aspetta, anche a costo di soffocare i propri desideri o emozioni.

Anche in questo caso, l’amore non è vissuto come un sentimento di reciproco affetto e fiducia, ma come qualcosa che va guadagnato. Pur di ottenerlo, si cerca di evitare ogni conflitto, magari trattenendosi dall’esprimere un’opinione contraria.

In poche parole, ci si annulla completamente.

Ma un legame mantenuto al prezzo della propria autenticità non nutre, non fa crescere, e soprattutto non cura la ferita di non sentirsi mai abbastanza per essere amati così come si è.

Anzi, più si rinuncia a esprimere sé stessi, più si alimenta — spesso inconsapevolmente — il senso di frustrazione, solitudine e svalutazione personale.

E più si cerca di trattenere l’altro conformandosi alle sue aspettative, più, paradossalmente, lo si allontana. Perché nella relazione non c’è più un sé che incontra un tu, ma solo uno specchio che riflette ciò che l’altro desidera.

C’è poi chi, profondamente convinto del proprio scarso valore, pur desiderando una relazione, non riesce a entrare in intimità con l’altro, a lasciarsi coinvolgere emotivamente.

Il desiderio di legame è presente, ma viene accompagnato da una sensazione costante di pericolo, dal timore: “Se mi avvicino troppo, verrò deluso, rifiutato, ferito.”

Dalle loro esperienze infantili, queste persone hanno imparato che affidarsi a qualcuno è rischioso, che mostrare un bisogno espone al rifiuto, che la vicinanza può diventare fonte di dolore.

Così, pur desiderando profondamente un legame autentico, finiscono per evitare l’intimità, mantenendo una distanza di sicurezza.

La strategia diventa quella dell’autosufficienza emotiva: “Non ho bisogno di nessuno”, “Sto meglio da solo”, “Conto solo su me stesso”.

Non si tratta di vera indipendenza, ma una difesa costruita attorno a quella ferita relazionale precoce, spesso mai riconosciuta.

Riconoscere il proprio valore profondo con la psicoterapia

Chi soffre di un senso costante di inadeguatezza tende a cercare il proprio valore fuori da sé: nelle conferme degli altri, nei risultati raggiunti, nell’essere sempre all’altezza delle aspettative.

Ma più si rincorrono approvazione, perfezione o controllo, più si alimenta — spesso senza rendersene conto — l’idea di non valere per ciò che si è, ma solo per ciò che si fa.

La vera guarigione è quella che passa attraverso la cura della propria interiorità.

La psicoterapia rappresenta una possibilità in questa direzione.

Non propone una nuova strategia per apparire migliori o per eliminare i sintomi a ogni costo. Al contrario, invita a rivolgere lo sguardo dentro, a fermarsi e ad ascoltare ciò che, troppo a lungo, è rimasto inascoltato: la sofferenza, i bisogni negati, le emozioni trattenute, la fatica di sentirsi “abbastanza”.

Nel tempo, dentro lo spazio protetto e non giudicante della relazione terapeutica, diventa possibile dare voce a parti di sé rimaste in ombra, abbandonare le maschere, riconoscere le ferite per quello che sono: adattamenti, tentativi di protezione, ma non verità su chi siamo.

È in questo processo che si apre la possibilità più autentica della cura: riscoprire il proprio valore personale non come qualcosa da conquistare, ma da ritrovare. Un valore che non dipende dalla prestazione, dall’approvazione o dalla perfezione, ma dalla semplice esperienza di esserci. Esistere, sentire, desiderare, essere vulnerabili… tutto questo non è una colpa, ma una forma piena e viva dell’essere umano.

Riconoscere il proprio valore profondo significa smettere di rincorrere la stima dell’altro, per iniziare a incontrarsi con uno sguardo nuovo, capace di accoglienza e di gentilezza. E questo sguardo può essere appreso — o forse, semplicemente, ricordato — proprio lì dove si è stati feriti: nella relazione.

Share on FacebookTweet about this on TwitterEmail this to someoneShare on LinkedInPin on Pinterest